Il principio della fine

 


La storia ufficiale colloca cronologicamente la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 quando l’imperatore fanciullo Romolo Augustolo viene deposto da Flavio Odoacre, generale di origine germanica. Questo evento riveste un carattere talmente epocale che segna la fine dell’era antica e l’inizio del cosiddetto medioevo. 

Ma la crisi dell’Impero affonda le sue radici nel secolo precedente quando, introno al 376, un popolo germanico, i Goti, minacciato dalle orde degli Unni, si ammassa sulla riva del Danubio, che segna il confine, chiedendo di entrare per mettersi sotto la protezione dell’Imperatore Valente. I Romani conoscono bene i Goti; spesso li fanno entrare quando serve mano d’opera o per rafforzare le fila dell’esercito perché sono buoni combattenti; altre  volte mettono a ferro e fuoco un loro villaggio per rappresaglia dopo qualche saccheggio, ma, il più delle volte, i rapporti tra i due popoli sono di accettabile convivenza.

Questa volta però non si tratta di poche migliaia di Goti che chiedono asilo, ma di una moltitudine talmente cospicua che i generali romani di servizio al confine non si assumono alcuna responsabilità: per concedere il permesso di entrata è necessario che sia lo stesso imperatore a pronunciarsi.  In quel momento Valente è molto lontano e appena gli arriva la notizia di questa grande massa di profughi che chiedono di entrare all’interno dei confini dell’impero, consigliato dai suoi più stretti collaboratori, decide di dare il suo benestare. Egli sta per intraprendere una campagna militare in Asia e conta, come già in passato, sui giovani Goti che andranno a rinforzare il proprio esercito.

Ma questa volta qualcosa va storto; quella che inizia come una ordinata operazione di accoglienza, con tanto di funzionari romani che registrano ogni goto che, se si tratta di un uomo, al momento di entrare deve lasciare le armi al “check point”, a causa della moltitudine di persone, diventa un caos ingestibile anche perché altri Goti continuano ad arrivare. Ci sono scontri con chi cerca di passare clandestinamente, zattere che affondano durante il passaggio del Danubio causando l’annegamento di intere famiglie e il pagamento sottobanco ai funzionari per portare con sé le armi.

In più c’è la gestione dei Goti entrati che, accolti in un gigantesco campo profughi, devono essere sfamati. I generali romani pensano bene di far pagare loro le razioni di cibo messe gratuitamente a disposizione dall’imperatore, realizzando incassi faraonici. Poiché il tutto si rivela un affare colossale, chi si sta arricchendo illecitamente non ha alcun interesse a far sì che questa gente ammassata al di qua del confine venga smistata ma naturalmente, col passare del tempo, la situazione diventa ingovernabile e tesissima. Gli scontri si moltiplicano al punto che deve intervenire lo stesso Valente che affronterà i Goti in campo aperto nella Battaglia di Adrianopoli del 378 nella quale l’esercito romano verrà completamente annientato e non si salverà neppure l’imperatore di cui non si saprà più nulla.

Le vicende che culminano nella Battaglia di Adrianopoli sono un esempio esplicativo di come la cattiva e disonesta gestione di una crisi umanitaria possa avere conseguenze disastrose. Se è vero che il detto Historia magistra vitae viene molto spesso sopravvalutato, comunque i fatti del passato dovrebbero se non consentirci la previsione del futuro comunque indurci a riflettere sugli errori già commessi per evitarli nel presente. Viviamo in un’epoca di grandi emergenze umanitarie che coinvolgono milioni di persone; le vicende di tutti coloro che affrontano “viaggi della speranza” su barconi fatiscenti, della Siria e, recentemente, dell’Afghanistan sono solo gli esempi più eclatanti e forse sarebbe bene che tutti quanti, dai governanti delle nazioni impegnati a gestire queste crisi ai comuni cittadini che poi sono quelli che si trovano in prima linea, mettano una mano sul libro di storia e l’altra sulla propria coscienza.


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