Sulle tracce del Covid – metodiche a confronto

Da più di due anni il Covid sta letteralmente condizionando le nostre vite al punto che ormai non c’è nessuno che non abbia sentito parlare di tamponi molecolari, antigenici e test sierologici negli innumerevoli programmi televisivi che sono stati dedicati all’argomento pandemia.

 

Senza aver la pretesa di aggiungere qualcosa di nuovo a quanto detto e ridetto (sarebbe veramente difficile se non impossibile), questo articolo ha lo scopo divulgativo di spiegare, in termini accessibili a tutti, le tecniche analitiche su cui si basano queste analisi. Sebbene abbia accumulato un’esperienza quasi ventennale nel campo della diagnostica di laboratorio prima di cambiare letteralmente vita dal punto di vista lavorativo, per esplicita scelta mi asterrò dal formulare giudizi o valutazioni personali sull’affidabilità di queste metodiche (naturalmente ho le mie idee) limitandomi a presentarle nella maniera più asettica possibile.

 

I test attualmente in uso adoperati nella rilevazione dell’infezione da Sars Cov-2, altro nome del Covid-19, sono sostanzialmente di tre tipi:

 

  1. Test molecolare o tampone molecolare

  2. Test antigenico o tampone rapido

  3. Test sierologico (anticorpale)

 

Il test molecolare viene eseguito con una tecnica denominata Real time RT-PCR (Reverse Transcription-Polymerase Chain Reaction). Si tratta di una metodica che nel giro di 2 - 6 ore è in grado di dare risposta sulla presenza del virus in un tampone eseguito a livello naso/orofaringeo.

 

 

Il principio si basa sulla ricerca dell’acido nucleico, cioè il genoma virale, che nel caso del Covid è un RNA a filamento positivo. Questo, se presente, viene estratto e retrotrascritto in vitro in DNA (normalmente è il DNA che viene trascritto in RNA, per questo si parla di retrotrascrizione) dall’enzima trascrittasi inversa che, non essendo presente in questo tipo di virus, viene fornita dall’esterno.

 

             

Una volta formatosi, il DNA viene amplificato da una serie di reazioni a catena in cui sono impegnate un’altra categoria di enzimi, le polimerasi, e simultaneamente quantificato.

Si tratta senza dubbio del gold standard per quanto riguarda la rilevazione dell’infezione da Covid, cioè del test più affidabile perché va a ricercare proprio l’acido nucleico, cioè il patrimonio genetico che ogni particella virale adopera come stampo per riprodurre una copia perfetta di se stessa.

 

I test antigenici rapidi, si basano invece sulla ricerca, sempre partendo da un tampone naso-faringeo, di determinate proteine virali, cioè quelle sostanze che servono al virus per compiere il proprio ciclo vitale a spese delle cellule che infetta e che vengono prodotte dietro istruzioni contenute nell’RNA.

Si tratta di test sicuramente più veloci di quelli molecolari perché in grado di dare risultati nel giro di 10 - 15 minuti; la metodica su cui si basano è definita immunocromatografia e consiste nel deporre la sostanza prelevata presente sul tampone, dopo un opportuno trattamento di estrazione, su una membrana in una zona che contiene anticorpi marcati diretti contro la proteina che si sta cercando. Successivamente il complesso migra verso la “zona test” dove si trovano altri anticorpi diretti contro la stessa proteina che però sono adesi alla membrana; in caso di positività, la proteina che già ha legato gli anticorpi marcati si unisce anche a quelli adesi e la marcatura dei primi provoca la formazione di una banda ben visibile.

Allo scopo di verificare una corretta migrazione, indispensabile per la riuscita del test, deve formarsi anche una seconda banda nella successiva “zona controllo” che porta adesi anticorpi diretti contro altri anticorpi marcati che si vanno a posizionare in quest’area.

Questa seconda banda è, ovviamente, l’unica che si forma in caso di test negativo.

 

  


I test sierologici sono quelli eseguiti su un campione di sangue ottenuto con prelievo venoso. Queste analisi non sono finalizzate alla ricerca del virus o parti di esso ma a determinare la presenza degli anticorpi specifici che l’organismo produce per difendersi. Dal momento che tale produzione richiede un certo periodo di tempo che viene definito “fase finestra” tale test non è in grado di determinare con certezza la situazione del momento: una persona che si sottopone a questo test potrebbe aver contratto il virus ma non ancora sviluppato gli anticorpi e quindi risultare negativa.

L’obiettivo di questo test è soprattutto quello di determinare se, dopo aver contratto l’infezione o essersi sottoposti a vaccinazione, c’è lo sviluppo di un certo titolo anticorpale che dovrebbe garantire l’immunità almeno fin quando è presente. Si può quindi affermare che la loro utilità risiede soprattutto nel consentire una valutazione epidemiologica della circolazione virale. 

 


La metodica più adoperata per questa tipologia di test è quella immunoenzimatica ELISA (Enzyme-Linked Immunosorbent Assay) basata sull’uso di strip contenenti pozzetti in cui avvengono le reazioni antigene-anticorpo che poi, alla fine, vengono evidenziate da uno sviluppo di colore.

 


 

I test ELISA si effettuano in vari step che prevedono l’immissione di siero diluito del paziente in esame in un pozzetto; le pareti di questo sono rivestite dalle proteine del virus che, in caso di positività, sono attaccate dagli anticorpi presenti nel siero. Dopo un’incubazione, la cui durata dipende dalla singola metodica e un lavaggio con opportuno detergente per allontanare tutto ciò che non ha reagito, si mette nel pozzetto un anticorpo diretto contro l’anticorpo virale già presente; questo secondo anticorpo porta legata una sostanza, si parla perciò di anticorpo coniugato o semplicemente coniugato. Terminata una seconda incubazione che deve permettere la reazione anticorpo serico – anticorpo coniugato, dopo un altro lavaggio, si aggiunge un’altra sostanza detta substrato che reagisce con la sostanza coniugata all’anticorpo aggiunto nella fase precedente provocando lo sviluppo di colore.

 


Alla fine di un’ultima incubazione che solitamente dura meno delle due precedenti si blocca la reazione con una soluzione acida e si effettua la lettura del pozzetto mediante un apposito lettore di microstrip.

 

E’ importante sottolineare che la ricerca sierologica può essere diretta verso più di una categoria anticorpale per cui il test che va a determinare la presenza degli anticorpi che si sono sviluppati dopo l’infezione non è lo stesso di quello che si esegue sui vaccinati; chi ha contratto il virus forma anticorpi contro la varie parti del virus che sono diversi gli uni dagli altri mentre chi è vaccinato possiede anticorpi diretti unicamente verso la Proteina Spike sintetizzata dall’organismo in seguito alla somministrazione vaccinale.

 

Va inoltre detto che, soprattutto nelle prime fasi della pandemia, sono stati adoperati test rapidi immunocromatografici per la ricerca degli anticorpi su sangue capillare prelevato dalla puntura del polpastrello; questi, non ricercando selettivamente lo spike, non sono assolutamente indicati per verificare l’efficacia della vaccinazione.

 


Per concludere voglio presentare uno schema comparativo, tratto da un articolo intitolato Analytical Performance of COVID-19 Detection Methods (RT-PCR): Scientific and Societal Concerns, pubblicato su Life che mette in relazione l’andamento dell’infezione da Covid-19 con quello che i test descritti in questo articolo sono in grado di offrire in termini di informazioni utili per la diagnosi e il monitoraggio epidemiologico.

 

Come si vede nella prima settimana di infezione, in assenza di sintomi, la ricerca con qualsiasi metodica può dare esito falsamente negativo; dalla seconda settimana fin quasi alla quarta sia il tampone molecolare che quello antigenico (tranne nei primi giorni) dovrebbero garantire risultati affidabili in caso di positività; dalla quarta alla quinta settimana, mentre inizia la formazione degli anticorpi, a causa dell’estrema sensibilità del test PCR ci possono essere dei casi di positività che non trovano riscontro nella presenza del virus in coltura e da interpretare quindi come falsi positivi.

Dalla metà della sesta settimana in avanti gli unici marker dell’infezione sono gli anticorpi, soprattutto quelli della classe IgG


 

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