Una, dieci, cento Terre - l’equazione di Drake


Credo che, sin dalla comparsa sulla Terra dei primi Homo sapiens, non ci sia stato alcun esemplare di questa specie che, nel corso della propria vita, alzando gli occhi al cielo, non si sia chiesto se siamo i soli a popolare l’universo; la curiosità se nell’incontaminata culla del firmamento ci sia qualche altro pianeta che abbia fatto da palcoscenico allo spettacolo della vita fa scaturire una di quelle domande probabilmente destinate a restare senza risposta che però nessuno smetterà mai di porsi.

D’altra parte si tratta di un interrogativo più che legittimo dal momento che, in un certo senso, potrebbe addirittura sembrare un atteggiamento arrogante l’idea di essere i soli in un universo così vasto in cui ci sono circa 100 miliardi di galassie ognuna delle quali contiene 100 miliardi di stelle.

Se a qualcuno venisse da chiedersi il numero all’incirca di stelle presenti nell’universo il conto, benché fatto da numeri astronomici (è proprio il caso di usare questo aggettivo), è presto fatto; basta ricorrere alla notazione esponenziale e i numeri diventano più gestibili:

100 miliardi = 100000000000 = 1011

Quindi 100 miliardi di galassie contenente ciascuna 100 miliardi di stelle ci danno un numero di astri pari a 1011 x 1011 = 1022 cioè 10000000000000000000000 (diecimila miliardi di miliardi).

Se già sembra un compito che è un eufemismo definire arduo stabilire il numero di pianeti su cui possa essersi sviluppata qualche forma di vita, a maggior ragione sembra  impossibile determinare quanti sono i corpi celesti che ospitano civiltà intelligenti.

Eppure, incredibile a dirsi, qualcuno ha provato, anche se limitatamente alla nostra galassia, ad affrontare questo problema elaborando una teoria matematica che sembra assurda ma al tempo stesso non priva di un certo fascino e di interessanti contenuti.

L’equazione di Drake o formula di Green Bank, dal nome del luogo in cui sorge il National Radio Astronomy Observatory, elaborata nel 1961 dall’astrofisico statunitense Frank Drake, offrendo un contributo a quel ramo della biologia detto esobiologia, prova a dare una risposta matematica mirata alla stima del numero di civiltà in grado di comunicare all’interno della Via lattea, cioè solo una delle 100 miliardi di galassie presenti come abbiamo visto nell’universo. 

La formula è la seguente:

N = R* x fp x ne x fl x fi x fc x L

dove:

N è il numero di civiltà presenti oggi nella nostra galassia con le quali si può pensare di stabilire una comunicazione 

R* è il tasso medio annuo con cui si formano nuove stelle nella Via Lattea

fp è la frazione di stelle che possiedono pianeti

ne è il numero medio di pianeti per sistema planetario in condizione di ospitare forme di vita

fl è la frazione dei pianeti ne su cui si è effettivamente sviluppata la vita

fi è la frazione dei fl pianeti {\displaystyle f_{l}} su cui si sono evoluti esseri intelligenti

fc è la frazione di civiltà extraterrestri in grado di comunicare

L è la stima della durata di queste civiltà evolute

R* ricavato da dati sperimentali dell'epoca ha valore 10

fp, ipotizzando che circa la metà delle stella abbia pianeti, ha un valore di 0.5

ne, prendendo come modello il Sistema Solare, assume il valore di 2

fl prende il valore di 1 perché, sempre prendendo il modello del nostro sistema, solo la Terra effettivamente ospita la vita

fi e fc assumono entrambi il valore di 0.01 partendo dal presupposto che, sempre prendendo come modello situazioni familiari, in 4 miliardi di anni sulla Terra una sola volta si è sviluppata una civiltà in grado di comunicare, concludendo quindi che solo pianeti piuttosto vecchi hanno la capacità potenziale di sviluppare intelligenze abili a svolgere questa funzione.

L viene stimata intorno ai 10 000 anni.

Con questi valori la Formula di Drake diventa:

N = 10 x 0.5 x 2 x 1 x 0.01 x 0.01 x 10000 = 10

tenendo naturalmente bene in considerazione il fatto che eventuali variazioni dei parametri coinvolti nell’equazione possono modificare in maniera sensibile il valore finale.        

Stime recenti basate su nuove conoscenze acquisite in campo astrofisico hanno suggerito modifiche a carico di alcuni parametri, per cui, nella sua forma moderna l’equazione è diventata:

N = 7 x 0.5 x 2 x 0.33 x 0.01 x 0.1 x 10000 = 23.1 

Come si vede, addirittura il risultato è più che raddoppiato rispetto all’originale il che probabilmente vuol dire non solo che c’è chi ha preso sul serio questa formula ma soprattutto che effettivamente potrebbe avere un reale e solido fondamento scientifico, sia pur chiaramente rimanendo nel campo delle probabilità.   

Naturalmente non mancano le critiche feroci come quella di T.J. Nelson il quale scrive: L'equazione di Drake consiste in un gran numero di fattori probabilistici moltiplicati tra loro. Poiché ogni fattore è sicuramente compreso tra 0 e 1, il risultato è anch'esso un numero apparentemente ragionevole sicuramente compreso tra 0 e 1. Sfortunatamente, tutti i valori sono ignoti, rendendo il risultato meno che inutile.

Il nostro Enrico Fermi nel 1950, cioè prima della formulazione dell’equazione di Drake, formulò un interrogativo che oggi è noto come il paradosso di Fermi; egli si chiede: “se nell'universo esiste un gran numero di civiltà aliene, perché la loro presenza non si è mai manifestata? 

La domanda può sembrare banale e forse lo è ma non deve trarre in inganno facendo credere che chi l’ha posta vuole liquidare la questione in due parole concludendo che non ci sono altre civiltà intelligenti.

In realtà parliamo di paradosso proprio perché anche Fermi, pur non disponendo della formula di Drake, si rese conto, basandosi forse sul principio copernicano, dell’esistenza di una probabilità matematica concreta portante a concludere in favore della possibile esistenza di nostri “simili” in qualche parte dell’universo che però non si sono mai “fatti sentire”.

Forse però la domanda da porsi a questo punto è un’altra: la nostra civiltà come reagirebbe alla notizia dell’esistenza di altre forme di vita intelligenti? Quantunque molto probabilmente queste siano talmente lontane da non consentire una situazione tipo Incontri ravvicinati del terzi tipo, la consapevolezza di condividere l’universo e forse addirittura la nostra galassia con altri popoli richiede una maturità che sicuramente l’umanità ancora non possiede.

Potrebbe sembrare una facile retorica ma è indubbio che una civiltà la si può definire pronta per stabilire eventuali “connessioni con l’esterno” (la parola “interplanetarie” mi sa troppo di fantascienza) nel momento in cui ha superato le divisioni e i conflitti interni, obiettivo per noi ancora assai lontano e arduo da realizzare.

Se il bene supremo della pace non costituisce la conditio sine qua non per portare la propria testimonianza oltre i confini dello spazio proprio non si vede quale contributo potrà dare la nostra civiltà se e quando, affacciandosi alla finestra del cosmo e porgendo l’orecchio, troverà qualcuno che le risponderà.

 

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