Il Dottor Tucidide - cronaca della peste di Atene

 


[...] All’interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuto e raucedine. In breve il male calava nel petto, con violenti attacchi di tosse. Penetrava e si fissava poi nello stomaco: onde nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. In più casi, l’infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all’interno spasimi tremendi: per alcuni, ciò avveniva subito dopo che si erano diradati i sintomi precedenti, mentre altri dovevano attendere lungo tempo. Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell’ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli [...]. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un esaurimento molte volte mortali. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità [...]. 

Questo brano tratto dall'opera di Tucidide "La guerra del Peloponneso" (Capitolo 2, paragrafo 49) costituisce la più rigorosa descrizione della terribile epidemia verificatasi ad Atene nel 429 A.C. all'inizio della guerra contro la città di Sparta che, dopo circa ventisette anni e molte vicende, si conclude con la vittoria di quest'ultima.


Lo stesso Tucidide, storico ateniese che narra i fatti, colpito dal morbo ne guarisce e quindi ciò di cui parla l'ha provato in prima persona, ragion per cui la sua non è solamente la narrazione più accurata di quella che è passata alla storia come la peste di Atene ma di certo anche la più attendibile. 
In realtà oggi si è praticamente certi che a scatenare l'epidemia non sia stato il batterio che costituisce l'agente eziologico della malattia che attualmente definiamo "peste", denominato Yersinia pestis.


Molti dei sintomi descritti da Tucidide fanno propendere per la febbre tifoide, anche se alcuni particolari narrati dallo storico, come ad esempio la morte degli animali che si accostavano ai cadaveri, sono in netto contrasto con questa ipotesi.

Altre malattie infettive sono state candidate ad essere la causa della peste di Atene, tra queste il morbillo e il vaiolo; quest'ultima molto probabilmente è responsabile anche della peste antonina che si verificò nell'Impero Romano all'epoca dell'Imperatore Marco Aurelio. E che il vaiolo fosse presente già nell'antichità già molto prima dell'epoca romana sembra accertato dal momento che la mummia del faraone Ramses V  vissuto nel XII secolo A.C. ne mostra quelli che sembrano evidenti segni.


Quella che però sembra l'ipotesi più accreditata è che alla base di tutto ci sia stato il tifo esantematico, patologia provocata da un batterio non appartenente al genere Salmonella come la febbre tifoide ma da una Rickettsia, per la precisione Rickettsia Prowazekii, un parassita intracellulare avente una forma coccobacillare.


Questo microrganismo si sviluppa all'interno di un serbatoio naturale costituito da popolazioni di scoiattoli dei boschi o topi comuni e può essere trasferito occasionalmente all'uomo da un artropode che funge da vettore, il  pediculus corporis. Tale vettore non inocula il germe quando punge l'uomo; l'infezione è causata dalle sue feci, in cui è presente l'agente patogeno, depositate sulla pelle che, a seguito del grattamento, penetrano all'interno portando con se la malattia.

A queste ipotesi si aggiunge quella che forse è la più ardita ma non per questo priva di fondamento; a formularla è Powel Kazanjian, docente presso l'Università del Michigan ed esperto di storia delle malattie infettive. Egli ritiene che la peste di Atene sia dovuta ad un'epidemia di virus Ebola


Sebbene la maggior parte dei virologi ritiene che la prima epidemia di Ebola si sia verificata nel 1976 in quello che allora era lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), alcune ricerche tenderebbero a dimostrare che la comparsa di questo terribile virus risale addirittura a circa 20 milioni di anni fa.


A suffragare l'ipotesi Ebola c'è il passo in cui Tucidide riferisce che l'epidemia avrebbe avuto origine in  una regione a sud dell'Egitto che egli chiama "Etiopia" ma che, per i Greci, corrispondeva all'Africa sub-sahariana, dove anche in epoche molto più recenti si sono verificati casi di contagi dovuti a contatti occasionali tra l'uomo e animali che ne costituiscono il serbatoio abituale. Da questa regione l'epidemia si sarebbe spostata in Grecia per i frequenti arrivi via mare di genti provenienti dall'Africa in veste di lavoratori o schiavi; a questo proposito è anche interessante notare che i primi casi, sempre a quanto riferisce Tucidide, furono segnalati nella zona del Pireo, il porto di Atene situato, allora come oggi, a svariati chilometri dal centro della città. 

Quello che però costituisce forse la parte più significativa della descrizione di Tucidide riguarda il comportamento delle persone che, in preda al panico, mostrano un comportamento irresponsabile che, non tenendo conto del rispetto altrui, finisce per peggiorare ulteriormente le cose. Saccheggi e ogni genere di crimini vengono compiuti perché alla paura delle pene si è sostituita quella della morte che rende insignificante ogni altro timore. I progetti a lungo termine vengono sostituiti da tutto ciò che può dare immediato riscontro e da ogni espediente che può cagionarlo. Addirittura c'è chi brucia il proprio congiunto morto sulla pira allestita per un altro; questo comportamento messo in atto da un popolo che tiene massimamente al culto dei morti cui garantire una degna sepoltura dopo averne cremato le spoglie, dimostra che ogni segno di umana e civile convivenza è venuta a mancare. 

Dal momento che epidemie e pandemie non sono argomenti che riguardano solamente il passato ma sono più che mai attuali (Covid in primis ma anche SARS ed Ebola verificatesi di recente) mi sentirei di consigliare una lettura attenta dell'opera di Tucidide: la storia è magistra vitae solamente a condizione che ci sia qualcuno disposto ad imparare. 

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